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MA QUESTO SMART WORKING FA BENE O FA MALE?

Se c’è una cosa che il Covid ha insegnato è che smart working significa lavoro a casa: errore. Per mesi, durante la quarantena collettiva, i lavoratori che potevano sono stati delocalizzati nel proprio tinello.

 

È cambiata solo la sede di lavoro, imposta in emergenza e per decreto e il 15 ottobre, con la fine dello stato d’emergenza tutto potrebbe tornare come prima. Molte aziende, però, stanno valutando i vantaggi di proseguire in regime di lavoro agile nella consapevolezza che lo smart working sia più del semplice “rimanere a casa e collegarsi via Zoom”.

Proviamo a spiegarlo.

COS’È. In Italia (fonte ministero del Lavoro) smart workingvie - ne tradotto come “lavoro agile”.

È previsto per legge ed è regolato da una norma di tre anni fa (legge 81 del 2017) che fa evolvere quello che un tempo era il telelavoro, questo sì una semplice trasloco del lavoro a casa con stessi orari, stesso sistema di controllo, garanzie e straordinari. Il lavoro agile, invece, nell ’intenzione della norma di fatto prevede sì che le mansioni possano essere svolte da qualsiasi luogo idoneo ma anche che si possa utilizzare una scansione del lavoro in “cicli, fasi o obie ttivi”a parità di trattamento e garanzie rispetto al lavoro tradizionale. Insomma, cerca di rendere più autonoma l’or - ganizzazione del lavoro.

Secondo la legge, è frutto di un accordo individuale tra il lavoratore e l’azienda: si stabilisce tra le due parti per quanto tempo, quale sia il potere di controllo del datore, quali strumenti si useranno e così via.

L’ENTITÀ. Prima del Covid-19 in pochi ricorrevano al lavoro agile.

L’azienda decideva se renderlo disponibile in base alle necessità e alle policy di welfare aziendale. Era un fenomeno di nicchia. Nella Pubblica amministrazione era stato introdotto dalla legge Madia, ma solo il lockdown l’ha messo a regime con l’obbligo dal 4 marzo. Una forzatura obbligata, ma così viene meno la trattativa individuale, si avvia un esperimento di massa che secondo le stime sindacali oggi riguarda ancora circa due milioni di lavoratori in Italia.

Erano meno di un milione prima della quarantena, hanno toccato il picco degli otto milioni tra marzo e aprile.

LO STATO DELL’ARTE. A spiegare cosa sia successo in mezzo è Cristian Sesena, responsabile Area Contrattazione della Cgil nazionale:

“I datori di lavoro hanno capito che lo smart workingnon dà problemi di produttività anzi. Può essere vantaggioso perché abbatte molti costi, dalla mensa ai trasporti. In più, molti lavoratori hanno dimostrato un certo grado di gradimento, nonostante le criticità”.

Si taglia sulle sedi, sui consumi, sui rimborsi, si passa (nelle ipotesi più ottimistiche) dagli straordinari ai premi di produzione. C’è chi ha calcolato che su ogni posto di lavoro si potrebbero risparmiare fino a 10mila euro. “Il 15 ottobre termina lo stato emergenza – spiega Sesena - Se non viene rinnovato, torna obbligatorio trattarlo con accordi individuali”.

Situazione che apre due possibili scenari: potrebbe dissuadere le aziende dall’o pt a r e per lo smart working o creare una giungla di accordi diversi, di fatto fornendo alle società anche elementi di concorrenzialità nell’attrarre i lavoratori. Al ministero del Lavoro sono iniziati i tavoli con i sindacati.

Il primo giovedì scorso, il prossimo dovrebbe arrivare entro il 15 ottobre. L’obiettivo è introdurre nella legge esistente la contrattazione collettiva. Finora, i grandi gruppi che hanno deciso di proseguire con il lavoro agile hanno siglato accordi di secondo livello. “Dare spazio a un accordo, anche interconfederale, con principi e linee guida che poi vengano recepiti nei contratti nazionali e aziendali, sarebbe un primo passo per evitare situazioni svantaggiose per i lavoratori e disparità”.

DIRITTI. Ferme restando le garanzie già esistenti (ferie e malattie), questa modalità di lavoro porta con sé altre sfide. Nella maggiore liberta di gestire il lavoro e il suo orario, ai lavoratori andrebbe garantita una adeguata strumentazione, sia per la loro tutela che per quella degli utenti (come i dati dei cittadini nella Pa).

Con la perdita del confine tra tempo di lavoro e di vita, poi, si rischia di lavorare di più senza accorgersene. “Il diritto alla disconnessione è nella legge, ma non viene spiegato come applicarlo” dice Sesena. In Francia hanno risolto stabilendo che dopo un certo orario il datore non può mandare mail. Inoltre, non tutti i lavori che possono essere svolti da remoto sono uguali.

Ciò che vale per un centralinista non vale per un progettista.

LA VALUTAZIONE. Per evitare di dar vita a un sistema basato sul cottimo, poi, “bisognerebbe riadattare il sistema contrattuale di valutazione della performance e di attribuzione di valore ” spiega invece Vincenzo Ferrante, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Univer - sità Cattolica.

In estrema sintesi, capire come valutare i risultati e come remunerarli nel momento in cui si dovesse passare da sistemi di valutazione retributivi a tempo (se lavori 8 ore ti do il doppio di chi ne lavora 4) a sistemi di valutazione secondo obiettivi. Una pratica sconosciuta da queste parti.

“Il lavoro in Italia è poco ingegnerizzato - spiega Ferrante - ci sono pochi standard predeterminati. Siamo un paese di piccole imprese, dove il datore può controllare quasi da sé i risultati. Ma nei grandi complessi industriali se non hai un sistema di controllo organico è difficile. Noi non lo abbiamo, la compliance è usata solo per motivi disciplinari, la programmazione è al minimo”.

Bisogna individuare anche nuovi strumenti contrattuali: “Ai sindacati tocca raggiungere una standardizzazione. L’idea è che il lavoro si strutturi più o meno così: se consegno a un lavoratore 50 pratiche da fare in 20 giorni, ne prevedo magari 10 difficili, 12 di media difficoltà e il resto semplici.

Al termine, valuto i risultati. Ma i parametri vannostabiliti in accordo con i rappresentanti dei lavoratori. È l’occasione per dar loro nuova linfa, per farli tornare a quando non facevano gli avvocati dei lavoratori ma spiegavano al datore come funzionava il lavoro”. Il datore deve però “mettere i soldi sul tavolo” per loro: se la produttività aumenta e i costi diminuiscono, non può essere a solo suo vantaggio.

IL CAMBIAMENTO. Potrebbe comunque riguardare tutte le funzioni impiegatizie e burocratiche.

Certo, cambierebbe l’organizzazione delle città, con pro e contro. Se gli uffici e i ristoranti si svuotano (gli esperti di Barclays credono che ci possa essere una riduzione fino al 20 per cento della domanda di spazi per gli uffici) potrebbe anche esserci una rivalutazione della periferia. “Se devo andare in centro a Milano al massimo un paio di giorni a settimana – spiega Ferrante – magari sarò più invogliato a prender casa nell ’hinterland.

E anche Ragusa potrebbe diventare competitiva come Pavia”.

 

Virginia Della Sala

da: Il fatto quotidiano