di Marco Palombi | 20 SETTEMBRE 2021
Il ministro della Transizione digitale, Vittorio Colao, a Cernobbio l’ha messa così: “L’appassionante dibattito sulla rete unica, un unicum in Europa, lo lascio ad altri. Il mio lavoro è assicurarmi che in Italia nel 2026 fibra e 5G arrivino ovunque”. L’ex manager di Vodafone pecca di modestia: quel dibattito è alimentato dal silenzio suo e del suo governo in una situazione assurda per almeno due motivi: 1) I due principali operatori interessati alla nuova infrastruttura digitale, e destinati alle nozze di cui oggi non si parla più, sono Tim e Open Fiber: il primo ha tra gli azionisti rilevanti la pubblica Cassa depositi e prestiti col 9,9% e il secondo è controllato direttamente dalla stessa Cdp col 60%. 2) Con l’attuale normativa, non c’è alcuna competizione possibile se non tra le due società partecipate da Cassa depositi, puro autolesionismo di Stato.
Lo scontro nel governo sui limiti di emissione
Insomma “l’appassionante dibattito” sulla rete unica sarebbe in realtà esattamente il lavoro di Colao, che però – senza dirlo – prova surrettiziamente da mesi a far saltare l’operazione nata ai tempi del Conte 2: finora nell’esecutivo ha incontrato l’opposizione di Giancarlo Giorgetti quando ha provato ad aumentare i limiti di emissione del cosiddetto “elettrosmog” (vedremo perché), l’imbarazzo dell’azionista di controllo di Cdp, il ministro dell’Economia Daniele Franco, e il sostanziale disinteresse del premier Mario Draghi. Anche i partiti, ad oggi, pare abbiano altro da fare: se ne parlerà dopo le Comunali, quando saranno più chiari gli equilibri in campo. Nel frattempo, da quando ad aprile è stata bloccata la mossa sui limiti di emissione, la partita è congelata, un po’ come capita alla Serie A di calcio su Dazn.
Chi farà, dunque, questa benedetta nuova rete per portare agli italiani fibra e 5G entro il 2026? Immaginare una vera concorrenza sull’infrastruttura, ammesso che sia desiderabile, oggi non è proprio possibile. Spieghiamolo con le parole di Open Fiber in un’audizione alla Camera dell’aprile 2019: per l’internet ultraveloce – spiegò l’azienda – serve una nuova infrastruttura e, se non vengono rivisti i limiti alle emissioni , converrà a tutti quelli che vendono servizi e contenuti online avere un unico operatore wholesale che metta la fibra a terra e la porti nelle case (un modello vicino, ma non identico, a quello Conte-Gualtieri).
Il blitz in Parlamento: Vodafone ci sperava
Qui si comincia a intuire cosa è successo con l’arrivo al ministero di Colao, ex manager Vodafone contrario alla rete unica tra Tim e Open Fiber: sponsorizzato dal ministro, è arrivato il tentato blitz renziano per aumentare di 10 volte i limiti all’elettrosmog (da 6 V/m a 61 V/m). Quasi tutta la maggioranza si oppose in commissione, benedetta – come detto – da Giorgetti. Questa operazione avrebbe di fatto aperto il mercato della rete spingendo la tecnogia FWA (fixed wireless access, in sostanza le antenne) e resuscitando in questa partita operatori oggi esclusi o marginali, Vodafone in testa (non proprio elegante dato il passato del ministro, ma tant’è).
Tenendo da parte le preoccupazioni sulla salute (che pure sono fondate, come dimostra un recente studio dell’Istituto Ramazzini di Bologna per l’Europarlamento già descritto dal Fatto), l’innalzamento dei limiti avrebbe un effetto molto semplice: il costo d’istallazione delle antenne per garantire l’efficienza delle reti per il 5G sarebbe per le imprese di circa 4 miliardi di euro inferiore (il calcolo è del fisico Antonio Capone del Politecnico di Milano, audito sul tema alla Camera sempre nell’aprile 2019).
Senza società unica avremo i consorzi
Se Colao non riuscirà a ritoccare i limiti, e ad oggi non pare aria, allora avrà comunque una sorta di società unica della rete in forma spuria: consorzi tra imprese – e s’intende tutte le imprese – che manterranno congelate le attuali quote di mercato e si divideranno da bravi fratelli le gare per spendere i 6,7 miliardi di euro che il Piano di ripresa destina da qui al 2026 alle reti ultra-veloci. Si comincia coi bandi per le cosiddette “aree grigie”, quelle in cui è presente un solo operatore, che dovrebbero arrivare entro l’anno ed essere assegnate nella primavera prossima (i lavori di Open Fiber sulle aree bianche, quelle a fallimento di mercato, sono in spettacoloso ritardo).
È questa l’operazione a cui le telco lavorano da settimane e che, a quanto risulta al Fatto, ha l’avallo degli azionisti di controllo di Tim (i francesi di Vivendi, che hanno preso atto dello stallo dopo incontri con Giorgetti e Franco) e quello di Cassa depositi e prestiti, almeno finché il ministro dell’Economia o il premier non vorranno condividere con qualcuno il loro pensiero sulla rete unica: ci limitiamo a segnalare che Tim e Cdp si presentano insieme anche nella gara per il cloud nazionale della P.A. e in questo caso il governo – come Il Fatto ha rivelato giovedì – lavora attivamente per togliere di mezzo i concorrenti.
Dal Conte 2 a oggi: in movimento
Mentre l’esecutivo e i partiti stanno fermi, la situazione dal lato del mercato è comunque in costante evoluzione: dopo Tiscali, anche Iliad ad agosto ha stretto un accordo con Fibercop – la società della rete di Tim – nel cui azionariato già figurano Fastweb e il fondo Usa Kkr. Nel frattempo, attesa, è partita l’uscita di Enel da Open Fiber: la Cassa depositi sta per salire al 60%, il resto sarà degli australiani di Macquarie. La tavola è apparecchiata insomma per l’accordo con Tim: “Se l’obiettivo è dare connettività a tutti nel minor tempo possibile, vedere due buchi a terra, uno parallelo all’altro, mi fa soffrire per lo spreco di risorse. Come per tutte le cose su cui ci sono opinioni differenti c’è bisogno di tempo, ma nel lungo periodo le buone idee vincono”, s’è sbilanciato l’ad di Tim, Luigi Gubitosi.
Solo che, ammesso che si finisca per andare avanti su AccessCo (la futura società unica della rete tra Open Fiber e Fibercop di Tim) le cose da chiarire sono parecchie e la prima è in che termini la cosa possa essere accettabile per il governo e, soprattutto, l’Antitrust Ue. Per capire quale sia il campo da gioco, bisogna partire dall’inizio. L’ex monopolista non vuole e non può perdere la rete, il cui valore a bilancio garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: Tim è dunque favorevole alla società unica della rete, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Per arrivarci ha intanto creato FiberCop, cui è stata devoluta la “rete secondaria”, ossia quella in rame o fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (non la cosiddetta “dorsale” insomma, che comunque è in via di obsolescenza). Il governo Conte 2 aveva dato il via libera all’operazione sognata da Tim con un paletto: la governance della futura AccessCo doveva essere neutra e nominata assieme a Cdp, qualunque sarà la quota azionaria di Tim.
E ultima arriva Bruxelles: la speranza di chi dice no
Una soluzione, questa, che nel governo Draghi non piace a nessuno e ancor meno piace a Bruxelles: se la società della rete dev’essere unica, Tim non può avere la maggioranza ed essere dunque allo stesso tempo fornitore e concorrente delle altre Telco. “Una soluzione sub-ottimale”, la definì l’ex ministro Roberto Gualtieri perché porcheria non si usa nelle sedi istituzionali.
Ora l’ultima speranza di chi non vuole la società unica in nessun caso è che Bruxelles entri a gamba tesa nella partita. La Dg Competition è chiamata a un primo giudizio sulla vendita della quota di controllo di Open Fiber a Cdp: il fronte del no può sperare che l’Ue imponga a Cassa depositi l’uscita da Tim o almeno dal suo cda (dove siede il presidente Giovanni Gorno Tempini). Poi, se mai ci si arriverà, sarà la volta della rete: difficile che Bruxelles dica sì a una società integrata in Tim e a quel punto la palla passerà all’ex monopolista, che secondo gli accordi con Cdp può ritirarsi quando vuole senza pagare pegno. Così non avrebbe la rete unica, ma potrebbe spostare di qualche anno il redde rationem sul suo modello industriale e i suoi bilanci.
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