Il calcio è indispensabile ai broadcaster nazionali per richiamare abbonati, ma i costi sono eccessivi e fanno saltare i bilanci

da ilfattoquotidiano.it – Lorenzo Vendemiale

Come il mito del canto delle sirene, che attirano e divorano, i diritti tv del calcio sono davvero uno strano mostro. Un buco nero dove inesorabilmente finiscono per inabissarsi aziende che sembravano inaffondabili, uno scoglio su cui si schiantano manager rampanti sulla cresta dell’onda. La Tim che fu di Luigi Gubitosi, disarcionato dal flop del suo piano calcio, fin qui ha realizzato un clamoroso autogol. Non è la prima, forse non sarà l’ultima. L’accoppiata con Dazn, calcio e telecomunicazioni, sembrava perfetta nell’era digitale, e infatti la proposta ha sbaragliato la concorrenza un po’ desueta di Sky. L’intuizione probabilmente era giusta, il futuro del calcio è in streaming. Ma il presente non sta funzionando. I problemi di Dazn sono cosa nota. I disservizi di trasmissione hanno fatto imbufalire i tifosi. L’annuncio di voler cancellare la doppia utenza, rinviato a fine stagione per l’insurrezione popolare, è stato il colpo di grazia per la reputazione dell’azienda. I conti non tornano: numeri ufficiali non ci sono, ma con circa 1,2-1,5 milioni di abbonati a 20 euro al mese, non ci vuole un matematico per capire che l’operazione non sta in piedi, nemmeno col supporto di Tim che dovrebbe garantire 340 degli 840 milioni l’anno. Ma Dazn Italia è pur sempre la piccola costola di un gruppo internazionale che ha l’ambizione di diventare la Netflix dello sport e le spalle coperte dal magnate britannico di nascita ucraina Len Blavatnik.

Chi invece non si aspettava di rimetterci, e forse nemmeno poteva permetterselo, è Tim. Bilancio scompaginato, Cda decapitato. È evidente che il flop è stato in parte un pretesto per il ribaltone interno alla guida dell’azienda: imposto dal fondo Elliott con la sponda di Cassa Depositi e Prestiti, Gubitosi era espressione del fronte opposto ai francesi di Vivendi, primo azionista col 24%. Era stato messo nel mirino da mesi ed è stato impallinato ora, per la vera partita che si gioca sulla rete e sullo sfondo il tentativo di scalata del fondo americano Kkr. Il disastro dell’operazione calcio, la sua unica iniziativa industriale, lo ha però privato della possibilità difendersi con i risultati. Fin qui è venuta davvero male.

L’azienda ha collezionato tre profit warning (allarmi di revisione utili al ribasso) di fila. Nell’ultimo si dice esplicitamente che “il peggioramento è imputabile a minori ricavi della telefonia fissa, in parte connessi all’andamento dell’accordo con Dazn per la distribuzione della Serie A Tim”. Si parla di uno scostamento di circa 400 milioni di ricavi, di cui 300 dovuti al calcio. Un bagno di sangue per un gigante già non in salute: negli ultimi cinque anni il gruppo ha perso circa 4 miliardi di ricavi, per il 2021 si parla di un ulteriore taglio mentre il Pil del Paese cresce del 6 per cento. Lo sbarco nel mondo del pallone doveva essere la svolta, per aumentare utili e linee fisse, core business di una Telco. Per ora non è successo: TimVision avrebbe tra 500 e 700mila abbonati, ma se ne prefiggeva il doppio. La fibra è in crescita, ma per lo più sulle linee già attivate. L’esclusiva è stata pagata troppo. Quando Gubitosi si è presentato in Cda con l’unica soluzione, rinegoziare dopo pochi mesi il contratto con Dazn (che fa spallucce), pure i consiglieri indipendenti lo hanno mollato. Un giudizio si potrà dare solo alla fine del triennio, ma intanto l’uomo che doveva digitalizzare il Paese col pallone si è ritrovato senza poltrona. La patata bollente è passata nelle mani del suo successore, Pietro Labriola.

Eppure sarebbe bastato ripassare un po’ di storia per imparare che far soldi con i diritti tv del calcio non è scontato. L’unica che ci è riuscita è Sky, costruendoci intorno un prodotto che era diventato indispensabile nelle case italiane. È durata più di un decennio. Ma l’idillio non si è spezzato quest’estate col traumatico divorzio dalla Serie A: a ben vedere la rottura era iniziata tre anni fa. Quando, con le dovute differenze, Sky fece più o meno lo stesso errore ripetuto oggi da Tim: credere che con le partite sarebbe riuscita a monopolizzare il mercato e invertire una tendenza che cominciava a essere negativa per la concorrenza feroce degli Ott. Per questo, nell’estate 2018, Sky si fece cucire addosso un bando che prevedeva una forte esclusiva, convinta di poter assorbire i clienti Mediaset. Ricavi e abbonati sono aumentati, sì, ma non abbastanza, e tanti tifosi si son persi per strada.

È in quel momento, quando il campionato passa a costare da 570 a 780 milioni l’anno, che qualcosa si rompe nei conti di Sky: il bilancio, che l’anno prima aveva chiuso con 100 milioni di utile, nel 2019 segna -18 (sull’anno solare). Poi è arrivato il Covid e lo sprofondo rosso (-690 nel 2020), ma i mali di Sky nascono da quell’asta venuta male, compresa la sentenza dell’Antitrust che, vietandole nuove esclusive online, l’ha di fatto tagliata fuori dal triennio 2021-24.

Non è un caso se l’artefice dell’operazione, Andrea Zappia, ha poi cambiato lavoro, proseguendo il suo percorso nel gruppo, ma lontano dall’Italia e dai diritti tv del pallone. Così come poi se n’è andato il suo successore Maximo Ibarra, dopo aver perso – per ragioni diverse – l’asta 2021.

Oggi Sky sta cercando di dimostrare a se stessa che può esserci vita anche senza calcio: alla ricerca di una nuova identità, l’azienda ha risparmiato 800 milioni l’anno e li ha reinvestiti in parte per provare a frenare l’emorragia di clienti. Anche il prossimo esercizio è atteso in passivo.

Il paradosso dei diritti tv è proprio questo: nessuno sembra poterne fare a meno (la stessa Sky sta cercando disperatamente di rientrare in partita, almeno con gli highlights), ma poi chi li tocca si brucia. Ne sa qualcosa Mediaset che, proprio per fare lo sgambetto a Sky, nel 2015 le aveva strappato a suon di milioni le partite della Champions League: anche qui l’investimento non si è ripagato. Il canale Premium (un’idea di Pier Silvio Berlusconi), che già prima non raggiungeva la marginalità, è letteralmente imploso, tanto da chiudere. Solo di recente il Biscione si è riaffacciato sui diritti tv, ma con un approccio completamente diverso, cogliendo qualche occasione a buon mercato (i Mondiali 2018, la Coppa Italia) e tenendosi alla larga dalle partite più pericolose.

Volevano far saltare il banco. Chi più chi meno, chi per un motivo chi per un altro, invece sono saltati loro. Se la maledizione dei diritti tv continua a ripetersi, forse c’è un motivo: le gare della Serie A costano più di quel che valgono. Questo perché i presidenti del pallone, incapaci di sviluppare il sistema, pretendono un prezzo sempre più alto per un prodotto che è sempre lo stesso. Le partite sono preziose, trasformano i tifosi in abbonati, ma non convengono se superano la soglia sostenibile da un unico operatore. Il miliardo che serve per mandare avanti il carrozzone della Serie A è davvero troppo. Ogni tre anni arriva qualcuno che ci casca. Chissà se prima o poi, invece, a cascare saranno i presidenti delle squadre di calcio.

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